Mi chiamo Mary Katherine Blackwood. Ho diciott’anni e abito con mia sorella Constance. Ho sempre pensato che con un pizzico di fortuna potevo nascere lupo mannaro, perché ho il medio e l’anulare della stessa lunghezza, ma mi sono dovuta accontentare. Detesto lavarmi, e i cani, e il rumore. Le mie passioni sono mia sorella Constance, Riccardo Cuor di Leone e l’Amanita phalloides, il fungo mortale. Gli altri membri della mia famiglia sono tutti morti.

Alessandra della biblioteca di Molinella consiglia Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson.

Già dalle prime pagine il lettore viene condotto dalla diciottenne Merricat – Mary Katherine, sorella minore di Constance – nelle stanze dell’abitazione dei Blackwood, una villa immersa in un giardino impenetrabile in cui le due sorelle vivono, isolate dal mondo, assieme allo zio Julian e al gatto Jonas.
Le sorelle Blackwood, in particolar modo Constance - ritenuta colpevole dell’omicidio dei familiari - sono costrette all’isolamento sociale poichè ne subiscono lo stigma da parte degli abitanti del paese. Infatti gli altri componenti della famiglia Blackwood – i genitori e il fratello minore di Mary
Katherine e Constance e la moglie dello zio Julian – sono morti per avvelenamento da arsenico; il veleno, comprato per uccidere dei ratti, è stato messo nello zucchero con cui i defunti hanno cosparso i mirtilli serviti alla loro ultima cena.
Constance non lascia la villa dalla sera dell’omicidio mentre Merricat è costretta a recarsi in paese un paio di volte alla settimana per prendere in prestito i libri della biblioteca e per acquistare beni di prima necessità.

Lo zio Julian invece, condannato alla sedia a rotelle, trascorre le sue giornate scrivendo e riscrivendo la cronologia dell’ultimo giorno vissuto dai defunti. Lo strano equilibrio dello stile di vita dei Blackwood viene stravolto dall’arrivo del cugino Charles, un giovane dalla personalità manipolatrice, il cui interesse esclusivo è quello di impadronirsi della fortuna ereditata dalle due sorelle.
La presenza di Charles porta Constance e Merricat a mettere in discussione il loro legame: Constance, dopo sei anni dalla morte dei familiari, riesce a fidarsi di un estraneo e accettare Charles come parte del suo mondo ristretto; Merricat invece fa il possibile (e l’impossibile) per obbligare lo sgradito ospite a lasciare la villa: come estremo tentativo arriverà persino ad appiccare un incendio che distruggerà i piani alti della villa medesima. L’incendio avrà un effetto devastante ma purificatore sul destino della famiglia Blackwood, ne ripristinerà l’equilibrio alterato al contempo rivelerà verità nascoste.
Questo breve romanzo di Shirley Jackson è un piccolo gioiello della letteratura statunitense della prima metà degli anni ’60.
L’atmosfera gotica che contraddistingue l’intera produzione letteraria dell’autrice è palpabile sin dalle prime righe e accompagna il lettore fino alla scoperta della verità che si cela tra le mura del maniero. Non ci sono colpi di scena eclatanti o immagini violente; nessun fantasma, nessun vampiro e nemmeno bagni di sangue, eppure la scrittura estremamente lucida dell’autrice, asciutta fino a essere tagliente, è capace di evocare in tutta la sua ferocia la mostruosità del normale. 
Shirley Jackson costruisce infatti un romanzo di paranoia psicologica, dove siamo sempre tenuti sul filo di una tensione angosciosa, poichè anche nei gesti minimi e quotidiani si percepisce costantemente la presenza del male. L’autrice non fa riferimento in modo esplicito ai disturbi che affliggono le due sorelle e lo zio Julian. Merricat sembra soffrire di una sorta di disturbo ossessivo compulsivo: con cadenza regolare sotterra nel giardino oggetti che etichetta come amuleti protettivi, recita formule magiche per allontanare dalla villa le influenze maligne e ispeziona ogni angolo della proprietà per assicurarsi che nessuno possa intrufolarvisi. Inoltre, solo alla fine del romanzo, ammette di aver avvelenato i parenti con l’arsenico. Constance ha sviluppato una patologia assimilabile all’agorafobia e all’ansia che la costringe ad una vita da reclusa tra le stanze della villa, in particolare in cucina, nell’orto e in giardino. Julian Blackwood, rimasto invalido a causa dell’arsenico, soffre di amnesia e rivive continuamente, attraverso le pagine del libro che scrive e i propri ricordi annebbiati, la notte in cui i suoi cari hanno perso la vita.
Questo romanzo prende per mano il lettore, lo trascina dove vuole, in luoghi e situazioni inaspettate, lo pervade di una sensazione di tragedia imminente ed inevitabile. Non è un caso che lo stesso Stephen King nell’epilogo di L’incendiaria dedichi alla famosa scrittrice questa frase “In ricordo di Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce”.

Abbiamo sempre vissuto nel castello
Shirley Jackson
Adelphi, 2020

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Narrativa, gotico, famiglia, pazzia, stigma

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